Loujain Alhathloul: i diritti umani delle donne

L’emergenza per il corona virus e le misure estreme di contenimento per fermare il contagio, ci hanno in qualche modo messo di fronte ad una limitazione di libertà a cui il popolo occidentale non era nè pronto nè preparato. Come se l’abitudine a dare tutto per scontato ci aveva fatto dimenticare l’importanza di certe possibilità di scelta. In molte parti del mondo già prima di tutto questa la situazione era problematica, quando non proprio terribile.

Persino in un paese considerato da molti come tra i più occidentali del medio oriente, per una donna musulmana anche il semplice atto di guidare un’auto era qualcosa di totalmente vietato. Fino a all’arrivo di Loujain Alhathloul.

Il movimento Women to drive

Se tornassimo indietro di soli cinque anni, potremmo dire che l’Arabia Saudita era un paese molto diverso da oggi. Non solo per lo Skyline in continua evoluzione, ma per gli stessi diritti umani dei suoi abitanti. Le donne, in particolare.

Quando in un qualsiasi paese si è soggetti a vessazioni e intolleranze, spesso le scelte si riducono a sole due possibilità: soffrire in silenzio o combattere a proprio rischio e pericolo. Più è alto il pericolo, più ci vuole coraggio per andare contro il sistema imposto.

E nel caso di Loujain Alhathloul e Manal al-Sharif (che già da prima si era battuta più volte per questa e altre cause femminili nel mondo saudita), ce n’è voluto parecchio visto che il rischio per loro erano carcere e torture.

Quando si vuole combattere qualcosa la strada migliore non è sempre quella del conflitto aperto e diretto. In questo caso per esempio se il punto di arrivo era una certa emancipazione delle donne arabe, una delle proposte fu quella di cominciare incrinando il muro di cose a loro vietate, partendo da un singolo mattone: guidare l’auto.

Ogni casa del resto parte proprio dalla posa del primo mattone, anche se per quanto a noi possa sembrare semplice, questa semplice richiesta di far guidare le donne all’interno dell’Arabia Saudita, fu osteggiata aspramente e con vigore.

Non a caso il suo primo tentativo di uscire dal confine degli Emirati Arabi per recarsi in Arabia Saudita, fu bloccato sul nascere e la giovane attivista finì arrestata (e probabilmente torturata) per 73 giorni a partire da quel 1° Dicembre 2014.

Il voto alle donne e la patente di guida

Certo non fu solo per il suo arresto, ma per quello di molte altre attiviste che in questi anni avevano cominciato a mostrare tutto il desiderio di ottenere le legittime concessioni, fatto sta che proprio l’anno successivo (2015), per la prima volta il monarca saudita concesse alle donne la possibilità di votare alle elezioni. Anche Loujain Alhathloul si candidò in quella tornata, ma il suo nome non apparse mai nelle liste. La strada era ancora lunga all’atto pratico.

Ma l’attivismo non è un luce che si accende e si spegne. E’ più simile all’atto di piantare un seme. Annaffiarlo, coltivarlo al meglio, curarlo con amore. E aspettare che prima o poi germogli e pianti radici fino a diventare un albero grande e forte.

Siamo ancora ai primi passi, ma la lunga guerra di Loujain Alhathloul e le altre ha avuto un’altra battaglia vincente nel 2018, quando finalmente il principe Moḥammed bin Salmān decide di concedere anche alle donne la possibilità di prendere la patente di guida.

La situazione attuale

La storia però è ben lungi dall’essere al lieto fine. Malgrado tutti gli organi di salvaguardia dei diritti umani si siano attivati per Loujain al-Hathloul, al momento l’attivista araba è ancora in carcere (arrestata  prima nel 2017 e poi nuovamente nel Maggio del 2018), con accuse anche piuttosto confuse riguardo a contatti con organizzazioni internazionali oltre naturalmente alla sue campagne per la fine del divieto di guida (e la forte critica al sistema guardiano maschile saudita).

Secondo la famiglia di Loujain, pare che i funzionari sauditi gli avessero proposto un rilascio solo in cambio della dichiarazione di non essere mai stata torturata. Cosa che invece lei stessa ha sempre coraggiosamente sostenuto, avendo dichiarato di essere stata oggetto di percosse, scosse elettriche, isolamento forzato, molestie sessuali e minacce di vario genere (parole riportate dalla sorella Alia).

In ogni caso la situazione tarda a sbloccarsi, e con la ripresa del processo proprio a inizio di Marzo 2020 (ormai a due anni dall’ultimo arresto), rischia una lunga condanna in via definitiva. E non è nemmeno l’unica a rischiare, visto che a processo ci sono altre 12 attiviste in attesa, di cui quattro come Loujain, ancora in carcere.

Il mondo ora è probabilmente distratto dal virus che sta tenendo tutti con il fiato sospeso, ma è soprattutto dentro le mura della nostra quarantena che possiamo dedicare se non altro un pensiero a questa ragazza, che insieme ad altre attiviste ha messo tutto a rischio per cercare di migliorare la società in cui stava vivendo.

Al suo coraggio e alla sua speranza non possiamo che unire il nostro coro. Andrà tutto bene.

Se invece siete interessati a partecipare più attivamente, sul sito di Amnesty International c’è la petizione per la raccolta firme.

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